La comunicazione ai tempi del COVID-19 Contributo SIPS Sezione Sardegna
Presidente Silvana Tilocca
A cura di
Giampaolo Carcangiu
Francesca Maria Anedda
Pubblicato su Numero 87 Marzo 2020
Società Italiana per la Promozione della Salute
www.sipsalute.it
Prefazione
La lunga e triste storia del legame uomo malattia è stata tratteggiata nel tempo dal pregiudizio, dall’ostilità e dalle discriminazioni nei confronti dei sofferenti.
Le epidemie hanno sempre accompagnato l’umanità nel suo cammino ed iniziarono
nel momento in cui gli uomini cominciarono ad aggregarsi in comunità stabili e
sempre più popolose, dove la comunicazione “mettere in comune” assume valori
fondamentali nel “far partecipi gli altri di qualcosa” …. nel bene e nel male.
Dalla Sardegna, terra della Madonna di Bonaria il cui simulacro, che reggeva con una mano il bambino Gesù e con l’altra una candela accesa, si racconta sia giunto in riva, all’interno di una cassa dopo una terribile tempesta, giunga in questo triste momento della nostra storia una luce di speranza, di unità e di memoria.
Buona Aria
LA COMUNICAZIONE AI TEMPI DEL COVID-19
La parola comunicazione dal latino “mettere in comune” ha assunto nel tempo il valore di “far partecipi gli altri di qualcosa”.
Al di là della teoria aristotelica che vede l’uomo come animale sociale, la prima verità sulla comunicazione è che è impossibile per qualsiasi essere vivente animato non comunicare con gli altri. La comunicazione, prerogativa umana fatta di legami e contesti ben specifici, non è semplicemente parlare, bensì presuppone una relazione e quindi uno scambio di informazioni tra individui. Non è infatti possibile evitare di comunicare o di subire una comunicazione: siamo tutti destinati a incontrarci e scontrarci, creando di volta in volta interazioni che inevitabilmente alterano lo stato precedente.
Tutto questo avviene senza bisogno parlare. La comunicazione verbale, infatti, non è l’unico strumento in nostro possesso per interagire con la realtà che ci circonda.
Più dettagliatamente la “meccanica” comunicativa, consta di due componenti fondamentali: l’emittente, persona che avvia la comunicazione attraverso un messaggio, e il ricevente, che a sua volta accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo comprende.
L’essere umano è in grado di sfruttare diverse tipologie di comunicazione. La prima è la cosiddetta comunicazione sociale o di massa, che utilizza un linguaggio standard per trasferire informazioni, e che, essendo a direzione unica, costituisce un sistema chiuso. La comunicazione per eccellenza è però quella interpersonale, che invece coinvolge più individui in un sistema circolare e aperto ed è basata su una relazione in cui gli interlocutori si influenzano vicendevolmente attraverso tre tipi di linguaggio:
Linguaggio verbale, tipicamente umano, che avviene attraverso l’uso della lingua, sia scritta che orale e che dipende da precise regole sintattiche e grammaticali che inevitabilmente compromettono l’efficacia comunicativa tra lingue e dialetti diversi;
Linguaggio non verbale o del corpo, che avviene attraverso mimiche facciali, sguardi, gesti, posture, come ad esempio toccarsi il mento per mostrare una certa riflessione sull’argomento di cui si sta parlando, o tirare il busto in avanti quando siamo interessati a ciò che stiamo ascoltando fino a mordicchiarsi le labbra quando la cosa ci interessa ma siamo consapevoli di non poterla fare;
Linguaggio paraverbale, che riguarda il tono, il volume e il ritmo della voce ma anche le pause e altre espressioni sonore come schiarirsi la voce o giocherellare con qualsiasi cosa capiti a tiro di mano.
È importante sottolineare che per esserci comunicazione, oltre al linguaggio, tutti gli altri elementi devono essere presenti, nessuno escluso. Il processo comunicativo, infatti, è una delle cose più complesse che esistano in natura.
La presenza del ricevente, il linguaggio condiviso e il contesto familiare non bastano a garantire la totale comprensione del messaggio. Nello specifico, la relazione personale esistente tra due o più interlocutori può compromettere notevolmente l’efficacia comunicativa dal momento che questa si manifesta normalmente con una distanza fisica pressoché standard (relazione familiari, partner, ecc. inferiore ai 50 cm. proporzionalmente fino a 3,5 metri con amici, conoscenti o sconosciuti).
Per una comunicazione efficace non basta saper parlare, essa non è una semplice facoltà mentale, ma una condizione essenziale della vita e dello stato di benessere di ogni essere vivente perché contribuisce a creare il senso di identità della persona permettendole di trasmettere informazioni di varia natura a più individui che rimandano una risposta.
Noi comunichiamo continuamente.
Comunichiamo attraverso le parole che diciamo e le modalità con le quali le formuliamo, ma comunichiamo anche quando non parliamo, attraverso gli sguardi e le espressioni corporee; e comunichiamo attraverso i nostri comportamenti, l’esempio che mostriamo e persino attraverso i risultati che otteniamo.
Ogni nostra interazione con le altre persone presuppone un momento di comunicazione, che è la diretta conseguenza della comunicazione che abbiamo con noi stessi, attraverso i nostri pensieri e le nostre convinzioni.
Lavorare significa interagire con altre persone e quindi significa comunicare.
La comunicazione è lo strumento attraverso il quale esprimiamo la nostra personalità e mettiamo in gioco le nostre competenze.
E la comunicazione è lo strumento attraverso il quale otteniamo o meno il consenso da parte delle altre persone e quindi la collaborazione o meno da parte dei nostri colleghi, capi, collaboratori, clienti, fornitori.
RISCHIO CONTAGIO
“Chi non ricorda il passato è destinato a riviverlo”. George Santayana (1863-1952).
La lunga e triste storia del legame uomo – malattia è stata tratteggiata nel tempo dal pregiudizio, dall’ostilità e dalla discriminazione nei confronti dei sofferenti, sia che fossero “pazzi” o “alcolisti” o “viziosi”, “epilettici” “delinquenti comuni” o “portatori di malformazioni o mutilazioni” o più semplicemente “poveri”, senza nessuna distinzione di sorta. Lo stigma sociale che li accomuna(va) ha contribuito alla loro segregazione, internamento ed emarginazione sociale, sottoponendoli spesso a forme estreme di repressione. Fin dall’antichità le malattie in generale furono spesso ricondotte all’intervento di forze soprannaturali (spiriti e divinità).
Ai tempi della Grecia classica la Follia ad esempio era considerata come vendetta degli dei, curabile solo grazie all’intervento dei sacerdoti. Roma non ebbe una cultura medica originale, assorbì via via la cultura greco alessandrina e passò da una concezione magica ad una naturalistica della malattia. In sintesi nelle diverse culture orientali e, greco – romana, un malato “grave” era da isolare anche fisicamente onde evitare il possibile contagio della collettività.
Nel Medioevo nacquero i primi ospedali e persino prima dell’anno Mille furono costruiti in Oriente, a Baghdad e al Cairo, anche speciali reparti per malati mentali.
In Europa, nel Medioevo, la lebbra ad esempio, seminava il terrore e morte. Il lebbroso era considerato un peccatore e il suo corpo era lo specchio fedele della malattia dell’anima. Per gli uomini del periodo era impossibile separare gli eventi somatici dal loro significato spirituale. La lebbra era quindi il prodotto del peccato peggiore, ovverossia quello che per i cattolici rappresenta il “vizio impuro”, uno dei sette vizi o peccati capitali. Nelle città d’Europa i malati di lebbra vennero perseguitati e relegati nei lazzaretti, dal nome dell’isola veneziana di Santa Maria di Nazareth, su cui nel XV secolo sorse un avamposto di quarantena chiamato Nazaretto, dal cui nome, per sovrapposizione col nome del personaggio evangelico Lazzaro (appestato per antonomasia, che la tradizione vuole sia stato resuscitato da Cristo), nacque quello di lazzaretto.
Tali strutture erano situate nelle estreme periferie dei centri abitati onde evitare i contatti con la popolazione sana.
La realtà dei lazzaretti ben descritta nel celebre romanzo storico di Alessandro Manzoni “I promessi sposi” più che ospedali, erano delle quarantene in cui i malati variamente infetti e incurabili venivano isolati per preservare il resto della comunità dal contagio. La segregazione scongiurava la paura della malattia e rispondeva al bisogno di protezione contro la contaminazione. Il lebbroso era un morto vivente, privato di ogni bene ed allontanato dal proprio ambiente sociale e materiale. Se autorizzato ad uscire doveva far in modo che la sua presenza fosse segnalata per evitare qualsiasi tipo di contatto con le persone sane. Essi infine, dopo la carestia del 1315-18 e le grandi epidemie che susseguirono, vennero accusati, insieme agli ebrei, di essere i responsabili della catastrofe umanitaria. Filippo V re di Francia organizzò la caccia ai lebbrosi in tutta la regione. Un gran numero di malati, dopo le confessioni di colpevolezza estorte sotto tortura, vennero arsi vivi o linciati dalle folle incontrollate, in un macabro rituale purificatore sostenuto e incoraggiato dal re e dai feudatari nel tentativo di distrarre le popolazioni estenuate dalla carestia e abbrutite dalla miseria e dalle calamità.
Alla fine di questo periodo la lebbra, che aveva simbolicamente rappresentato il male di un’epoca, cominciò a diradarsi sin quasi a scomparire. Il lebbroso passò così dall’isolamento ospedaliero a quello domiciliare. Le dizioni “morbo di Hansen” o “Hanseniasi” vengono ancora oggi privilegiate per evitare lo stigma che la parola “lebbra” ancora reca con sé nell’opinione pubblica.
Liberati i lebbrosi dai lebbrosari sorgeva il problema di riempire quei contenitori di malati, da tenere a dovuta distanza, con altro materiale umano difettoso. I Folli soppiantarono i lebbrosi. Secondo l’approccio demonologico medioevale anche, i folli, allo stesso modo dei lebbrosi, venivano considerati peccatori, umiliati, torturati e finanche arsi vivi, perché la malattia mentale era un castigo divino punibile, contraddittoriamente, dagli uomini.
Nel 1494 Sebastian Brant (1458 – 1521) pubblicò “DasNarrenschiff”, poema allegorico in versi. Il volumetto satirico ebbe un successo inaspettato, anche grazie alla traduzione in latino con il titolo di “Stultifera Navis”. Il motivo della Nave della Follia “strano battello stipato di folli che naviga senza una meta lungo i fiumi”, precisa Foucault nel primo capitolo della “Storia della follia nell’età classica”, non era, poi, totalmente un frutto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i “matti” dalle comunità dei “normali”, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. La nave dei folli diventerà l’allegoria letteraria più ricorrente del nord Europa e sarà tra le più importanti fonti di ispirazione per un altro saggio a carattere satirico “l’Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam, (1466-1536), teologo, filosofo olandese, che però non considererà la follia come una pena inflitta al peccatore, bensì come una qualità positiva che prelude la pura saggezza.
Erasmo utilizzava la satira e l’ironia, per mettere in mostra, così come Brant, la decadenza morale della società del suo tempo, a partire dalla Chiesa e dalle altre istituzioni, per concludere che “il mondo è dominato dalla follia “
La Stultifera Navis più rudemente, ospita solo passeggeri folli, personificazioni dei peccati capitali, dell’immoralità e della stupidità: sono gli stessi folli, i rappresentanti della vita civile, religiosa e culturale, tutti indifferenti alla ricerca della verità, un atteggiamento questo che, secondo Brant, reca con se solamente la sciagura e l’inevitabile naufragio. Sulla nave della follia regna la stoltezza e la morte.
LE GRANDI EPIDEMIE NELLA STORIA DELL’UMANITÀ
Gli uomini vissero per circa 1,5-2,0 milioni di anni (fino a 10.000 anni fa in villaggi di 100-200 persone e si muovevano in continuazione alla ricerca di nuovi territori di caccia.
Le epidemie hanno sempre accompagnato il cammino dell’uomo, esse ebbero inizio quando gli uomini incominciarono ad aggregarsi in comunità stabili e il corrispettivo aumento della popolazione rese rapidamente insufficiente il cibo naturale e spinse gli uomini a praticare l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Gli uomini entrarono quindi in contatto con agenti infettivi degli animali d’allevamento e, successivamente, di quelli attratti nei loro insediamenti (ratti, insetti, cani, gatti etc.). L’assenza inoltre di adeguati metodi di smaltimento dei rifiuti e degli escreti favoriva il proliferare di animali parassiti e con altri vettori di agenti infettivi come zecche, pulci e pidocchi.
Anche l’acqua divenne sorgente d’infezioni quali schistosomiasi e colera nonché di diffusione delle zanzare Anopheles, vettrici del parassita responsabile della Malaria.
Già allora, comunque, esistevano patologie quali zoonosi (trichinosi, tularemia, tetano, schistosomiasi, leptospirosi) e parassitosi interne o esterne. Altre infezioni erano rappresentate da salmonellosi e, forse, dalla sifilide. La vita in comunità, la formazione di vasti aggregati con l’inevitabile aumento dei contatti umani hanno favorito, in prima battuta, la trasmissione di malattie per via aerea (morbillo) o contatto diretto (vaiolo), i cui agenti infettanti determinavano l’insorgere di epidemie in grado di decimare la popolazione.
Alcune di esse come la peste, il vaiolo, la sifilide, il colera, la tubercolosi e la pandemia influenzale del 1918-19 hanno cambiato la storia dell’umanità per i loro effetti demografici, economici e sociali. Riferimenti alle epidemie si ritrovano nella letteratura, nell’arte e nella storia di ogni città o villaggio. Le epidemie creavano angoscia e terrore perché seminavano morti a migliaia nello stesso momento. La malattia e la morte individuale sono una tragedia del singolo e della sua famiglia; la morte in massa aggiunge il senso della catastrofe, del flagello, della fine collettiva.
Solo alla fine dell’800 la medicina è stata in grado di scoprire gli agenti eziologici delle principali malattie a carattere epidemico: virus, batteri e protozoi. Insieme a scoprirne le cause, la comunità scientifica è riuscita a scoprire metodologie di prevenzione e cura di molte malattie infettive.
Alle tradizionali malattie di carattere epidemico come peste, vaiolo, sifilide, colera, tubercolosi si sono affiancate negli ultimi 30 anni nuove malattie infettive chiamate “emergenti”. Tra queste l’AIDS, l’infezione da virus Ebola, la SARS, l’influenza aviaria da virus A/H5N1, l’influenza suina da virus A/N1N1 e attualmente in corso quella del corona virus COVID-19.
Anche se ancora per numerose malattie non esistono vaccini, né terapie, la comunità scientifica internazionale può contare oggi su un elevato numero di farmaci e di vaccini sicuri ed efficaci, su una solida esperienza nella collaborazione internazionale, su una incrementata capacità di sorveglianza epidemiologica, su un numero maggiore di laboratori in grado di identificare le caratteristiche genetiche dei virus e di fare diagnosi negli esseri umani, su conoscenze scientifiche in continuo divenire e su un’organizzazione sanitaria in grado di coprire il territorio.
Occorre, però, conoscere l’esperienza del passato, remoto e recente, e farne tesoro per saper affrontare le emergenze sanitarie di oggi: si tratta di un patrimonio di conoscenze e di valori acquisito attraverso secoli di lotta alle grandi epidemie. Imparare dunque dall’esperienza per gestire con successo il presente. Attraverso l’informazione e la conoscenza l’uomo di oggi riesce a vivere coscientemente, superando la paura e fronteggiando anche situazioni di grande emergenza.
STIGMA SOCIALE ASSOCIATO A COVID-19*
*Guida per prevenire e affrontare lo stigma sociale.
Il documento include raccomandazioni del Johns Hopkins Center for Communication Programs, READY Network. Traduzione italiana di “Social Stigma associated with COVID-19” prodotto da IFRC (International Federation of Red Cross, and Red Crescent Societies), UNICEF e WHO.
Che cos’è lo stigma sociale?
Lo stigma sociale, nel contesto della salute, è l’associazione negativa tra una persona o un gruppo di persone che hanno in comune determinate caratteristiche e una specifica malattia. In una epidemia, ciò può significare che le persone vengono etichettate, stereotipate, discriminate, allontanate e/o sono soggette a perdita di status a causa di un legame percepito con una malattia. Tale esperienza può avere un effetto negativo sulle persone colpite dalla malattia, nonché sui loro caregiver, sulla loro famiglia, sui loro gli amici e sulla loro comunità. Anche le persone che non hanno la malattia ma condividono alcune caratteristiche con questo gruppo possono essere oggetto di stigma. L’attuale epidemia di COVID-19 ha provocato stigma sociale e comportamenti discriminatori nei confronti di persone appartenenti a determinate etnie e di chiunque si ritenga essere stato in contatto con il virus.
Perché il covid-19 sta causando tanto stigma?
Il livello di stigma associato al COVID-19 si basa su tre fattori principali:
1) è una malattia nuova per la quale esistono ancora molte incognite;
2) abbiamo spesso paura dell’ignoto;
3) è facile associare quella paura agli “altri”.
È comprensibile che ci sia confusione, ansia e paura tra la gente. Sfortunatamente, questi fattori stanno anche alimentando la crescita di stereotipi dannosi.
Qual è l’impatto?
Lo stigma può minare la coesione sociale e può indurre ad un isolamento sociale dei gruppi. Ciò potrebbe contribuire a creare una situazione in cui il virus potrebbe avere maggiore – non minore – probabilità di diffusione.
Ciò può comportare problemi di salute più gravi e maggiori difficoltà a controllare l’epidemia. Lo stigma può:
- Spingere le persone a nascondere la malattia per evitare discriminazioni.
- Indurre a non cercare immediatamente assistenza sanitaria.
- Scoraggiare l’adozione di comportamenti sani.
Come affrontare lo stigma sociale
Le evidenze mostrano chiaramente che lo stigma e la paura nei confronti delle malattie trasmissibili ostacolano la corretta risposta. Serve creare fiducia nei servizi sanitari e nelle raccomandazioni sanitarie affidabili, serve mostrare empatia con le persone colpite, spiegare la malattia e adottare misure efficaci e facili da mettere in pratica in modo che le persone stesse possano proteggersi e possano proteggere i propri cari.
Il modo con cui parliamo di COVID-19 è fondamentale per supportare le persone a intraprendere azioni efficaci per aiutare a combattere la malattia e per impedire di alimentare la paura e lo stigma. È necessario creare un clima in cui la malattia e il suo impatto possano essere discussi e affrontati in modo aperto, onesto ed efficace.
Ecco alcuni suggerimenti su come affrontare il crescente stigma sociale e come evitarlo:
- Le parole contano: cosa fare e cosa non fare quando si parla del nuovo coronavirus (COVID-19)
- Fai la tua parte: idee semplici per allontanare lo stigma
- Suggerimenti e messaggi di comunicazione.
Le parole contano
Quando si parla di coronavirus, alcune parole (per esempio, “caso sospetto”, “isolamento”) e in generale il linguaggio utilizzato nella comunicazione possono avere un significato negativo per alcune persone e dunque possono alimentare atteggiamenti stigmatizzanti.
Le parole utilizzate possono consolidare stereotipi o ipotesi negative, rafforzare false associazioni tra la malattia e altri fattori, creare una paura diffusa o “disumanizzare” coloro che sono colpiti dalla malattia.
Tutto ciò può indurre le persone a non farsi controllare, a non farsi visitare e non rimanere in quarantena.
Raccomandiamo anzitutto l’uso di un linguaggio adatto alla gente in tutti i canali di comunicazione, compresi i media, un linguaggio che sia rispettoso delle persone e che possa essere facilmente recepito. Le parole usate nei media sono particolarmente importanti, perché daranno forma al linguaggio popolare e alla comunicazione sul nuovo coronavirus (COVID-19).
Espressioni negative nel racconto della malattia hanno il potenziale di influenzare il modo in cui poi sono percepite e trattate le persone che si pensa possano avere il nuovo coronavirus (COVID-19) e cioè i malati, le loro famiglie e le comunità colpite dal virus. Ci sono molti esempi concreti di come l’uso di un linguaggio inclusivo e di una terminologia meno stigmatizzante possano contribuire a controllare epidemie e pandemie, come nel caso dell’HIV, della Tubercolosi e dell’influenza H5N1.
Cosa fare e cosa non fare
Di seguito sono riportate alcune cose da fare e altre da non fare in termini di linguaggio quando si parla della nuova malattia da coronavirus (COVID- 19):
COSA FARE – parlare della nuova malattia da coronavirus (COVID-19)
Cosa non fare – Associare luoghi o etnie alla malattia, questo non è un “virus di Wuhan”, un “virus cinese” o un “virus asiatico”, un “virus italiano”. Il nome ufficiale della malattia è stato scelto deliberatamente per evitare la stigmatizzazione: “CO” sta per Corona, “VI” per virus e “D” per malattia, il 19 è perché la malattia è emersa nel 2019.
COSA FARE – parlare di “persone che hanno COVID-19”, “persone che sono in cura per COVID-19”, “persone che si stanno riprendendo da COVID-19” o “persone che sono morte dopo aver contratto COVID-19”
Cosa non fare– Riferirsi a persone con la malattia come “casi COVID-19” o “vittime”.
COSA FARE – parlare di “persone che potrebbero avere COVID-19” o “persone che si presume abbiano il COVID-19”
Cosa non fare–Utilizzare parole di duplice significato come ad esempio la parola sospetto, “sospetti COVID-19” o di “casi sospetti”. La scelta poco felice di parole che richiamano alla colpevolezza non sono consigliabili.
COSA FARE – parlare di persone che “hanno preso” o “hanno contratto” il COVID-19.
Cosa non fare Parlare di persone che “trasmettono COVID-19”, “infettano gli altri” o “diffondono il virus” poiché implica una trasmissione intenzionale e attribuisce una colpa. L’uso della terminologia criminalizzante o disumanizzante crea l’impressione che chi ha la malattia abbia in qualche modo fatto qualcosa di sbagliato o sia meno umano di noi, alimentando così lo stigma, minando l’empatia e potenzialmente alimentando una maggiore riluttanza a farsi curare o a sottoporsi a screening, a test e a quarantena.
COSA FARE – parlare in modo accurato del rischio derivante da COVID-19, sulla base di dati scientifici e delle più recenti raccomandazioni fornite dalle istituzioni preposte, che operano per la salute.
Cosa non fare– ripetere o condividere voci non confermate ed usare un linguaggio iperbolico creato per generare paura ad esempio utilizzando parole come “peste”, “apocalisse”, ecc.
COSA FARE – parlare in modo positivo ed enfatizzare l’efficacia delle misure di prevenzione e trattamento. Per la maggior parte delle persone questa è una malattia dalla quale si guarisce. Ci sono semplici passi che tutti possiamo fare per mettere al sicuro noi stessi, i nostri cari e i più vulnerabili.
Cosa non fare – enfatizzare o soffermarsi sul negativo o sui messaggi di minaccia. Dobbiamo lavorare insieme per aiutare a proteggere le persone più vulnerabili.
COSA FARE– sottolineare l’efficacia dell’adozione di misure protettive per prevenire l’acquisizione del nuovo coronavirus, effettuare screening, test e farsi curare.
Fai la tua parte
I Governi, i cittadini, i media, gli influencer chiave e la comunità hanno un ruolo importante da svolgere nel prevenire e fermare lo stigma che oggi colpisce le persone che vengono dalla Cina e dall’Asia in generale.
Dobbiamo essere tutti molto attenti e accoglienti quando comunichiamo sui social media e su altre piattaforme di comunicazione, mostrando comportamenti di supporto relativamente alla nuova malattia da coronavirus (COVID-19). Ecco alcuni esempi e suggerimenti su possibili azioni per contrastare gli atteggiamenti stigmatizzanti:
- Fornire informazioni: lo stigma può essere intensificato da una conoscenza insufficiente relativamente a come il nuovo coronavirus (COVID-19) viene trasmesso e trattato e come si può prevenire l’infezione. Di conseguenza, dare la priorità alla raccolta, al consolidamento e alla diffusione di informazioni accurate e specifiche per ogni paese e comunità, per quanto riguarda: le aree interessate, la vulnerabilità individuale e di gruppo a COVID-19, le opzioni di trattamento e cosa fare per avere assistenza sanitaria e informazioni sulla malattia.
- Usare un linguaggio semplice e evitare termini clinici. I social media sono utili per raggiungere un gran numero di persone per fornire informazioni sulla salute a costi relativamente bassi.
- Coinvolgere gli influencer sociali ad esempio persone famose, celebrità, o leader religiosi, per favorire una attenta riflessione sulle persone che sono stigmatizzate e come sostenerle, e per amplificare i messaggi che riducono lo stigma. Le informazioni fornite da queste persone dovrebbero essere ben mirate e le celebrità alle quali viene chiesto di comunicarle dovranno sentirsi direttamente coinvolti, essere giuste per il contesto geografico e culturale al quale si rivolgono e adeguate al pubblico che si vuole influenzare. Un esempio potrebbe essere un sindaco (o altro influencer chiave) che va in diretta sui social media e stringe la mano al leader della comunità cinese.
- Amplificare le voci, le storie e le immagini delle persone locali che hanno avuto il coronavirus (COVID-19) e sono guarite o che hanno supportato una persona cara durante la malattia per sottolineare che la maggior parte delle persone guarisce dal COVID-19. Inoltre, l’implementazione di una campagna denominata “eroe” per onorare chi si prende cura dei malati e gli operatori sanitari che potrebbero essere stigmatizzati. Anche i volontari svolgono un ruolo importante per ridurre lo stigma nelle comunità.
- Assicurarsi di rappresentare diversi gruppi etnici. Tutti i materiali prodotti dovrebbero mostrare diverse comunità colpite dal COVID 19 che lavorano insieme per prevenirne la diffusione. È bene assicurarsi che i caratteri, i simboli e i formati utilizzati siano, neutrali e non suggeriscano alcun gruppo particolare.
- Seguire un “giornalismo etico”: gli articoli che si concentrano eccessivamente sul comportamento individuale e sulla responsabilità dei pazienti di avere preso e di “diffondere COVID-19″ possono aumentare lo stigma delle persone che potrebbero avere la malattia. Alcuni media si sono concentrati, ad esempio, sull’origine di COVID-19, cercando di identificare il “paziente zero” in ciascun paese. Enfatizzare gli sforzi per trovare un vaccino e un trattamento può aumentare la paura e dare l’impressione che non siamo in grado di arrestare le infezioni. Vanno invece promosse informazioni relative alle pratiche di prevenzione delle infezioni di base, ai sintomi di COVID-19 e a quando cercare assistenza sanitaria.
- Stare uniti: esistono diverse iniziative per affrontare lo stigma e gli stereotipi. È fondamentale collegarsi alle attività esistenti per creare un movimento e un ambiente positivo che mostri attenzione ed empatia per tutti.
SUGGERIMENTI E MESSAGGI UTILI PER LA COMUNICAZIONE
L’ “infodemia” di disinformazione e di voci infondate si sta diffondendo più rapidamente dell’attuale epidemia del nuovo coronavirus (COVID-19).
Ciò contribuisce agli effetti negativi tra cui la stigmatizzazione e la discriminazione delle persone delle aree colpite dall’epidemia. Abbiamo bisogno di solidarietà collettiva e di informazioni chiare e facilmente applicabili per sostenere le comunità e le persone colpite da questo nuovo epidemia.
Informazioni sbagliate, voci infondate e disinformazione in generale stanno contribuendo allo stigma e alla discriminazione ostacolando gli sforzi di contenimento.
– Correggere le credenze sbagliate, allo stesso tempo riconoscere che i sentimenti che prova la gente e i comportamenti a questi associati sono molto reali, anche se l’assunto di base è falso.
– Promuovere l’importanza della prevenzione, delle azioni salvavita, dello screening precoce e della cura. La solidarietà collettiva e la cooperazione globale sono necessarie per prevenire un’ulteriore trasmissione della malattia e alleviare le preoccupazioni delle comunità.
− Condividere racconti che generano empatia o storie che umanizzano le esperienze e le difficoltà delle persone o dei gruppi di persone colpiti dal nuovo coronavirus (COVID-19)
− Trasmettere supporto e incoraggiamento per coloro che sono in prima linea nella risposta a questa epidemia (operatori sanitari, volontari, leader della comunità ecc.).
I fatti, non la paura, fermeranno la diffusione del nuovo coronavirus (COVID-19):
– Condividi fatti e informazioni accurate sulla malattia.
– Sfida miti e stereotipi.
– Scegli le parole con attenzione.
Il modo in cui comunichiamo può influire sugli atteggiamenti degli altri.