L’approccio ecologico ai Problemi Oncologici Correlati (POC) di Giampaolo Carcangiu

“Quella notte in ospedale, nel silenzio rotto solo dal frusciare delle auto sull’asfalto bagnato della strada e da quello delle suore sul linoleum del corridoio, mi venne in mente un’immagine di me che da allora mi accompagna. Mi parve che tutta la mia vita fosse stata come su una giostra: fin dall’inizio m’era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a mio piacimento senza che mai – me ne resi conto allora per la prima volta -, mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto. No. Davvero il biglietto non ce l’avevo. Tutta la vita avevo viaggiato a ufo! Bene: ora passava il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, magari riuscivo anche a fare…. Un altro giro di giostra”. T. Terzani, 2004.

Dalla seconda metà del secolo scorso il trattamento delle patologie neoplastiche è progressivamente migliorato e la guarigione è oggi un evento possibile e più probabile rispetto al passato. In questo lavoro abbiamo voluto concentrare l’attenzione sulla globalità dei sistemi individuo, famiglia e comunità, in relazione ai concetti di cambiamento di “stile di vita”, miglioramento della “qualità della vita” e approccio ecologico sociale. Ho voluto iniziare con questa premessa perché sono fermamente convinto che: “La vita non è una proprietà privata. Nonostante siamo liberi di usarla a modo nostro, da un punto di vista etico, non siamo liberi di danneggiarla intenzionalmente o di distruggerla” (V. Hudolin, 1993). “Finché c’è vita c’è pericolo” affermava il celebre filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson (1803-1882) ragion per cui la nostra esistenza non può avere fine con la diagnosi di un tumore, né questa condizione deve rappresentare l’epicentro della quotidianità di un uomo, bensì l’occasione, per quanto inattesa, per iniziare a prendersi cura di sé stessi, dei propri cari e delle proprie relazioni. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la salute, in modo provocatoriamente utopistico, come “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non di semplice assenza di malattia”. Per tendere a tale condizione, ci si dovrà impegnare oltre che per la terapia delle malattie, anche per l’esaudimento delle proprie aspirazioni e per il miglioramento della qualità e della durata della propria e dell’altrui vita. La salute è quindi concepita come una risorsa per la vita e non come lo scopo della nostra esistenza; si tratta di un concetto positivo che pone l’accento sia sulle abilità personali e sociali che sulle quelle fisiche. In campo oncologico, secondo recenti studi, una persona su tre lamenta un disagio esistenziale tale da influenzare, in maniera significativa, la vitalità, i rapporti interpersonali, il ritorno al lavoro o alla quotidianità familiare e persino il desiderio di curarsi. Le emozioni tossiche, oltre che trasformarsi in malattie, sono causa di aggravamento delle stesse, incrementano la vulnerabilità personale e il senso di continuità e di minaccia reale della propria esistenza.

Dagli stessi studi si rileva che solamente in un caso su quattro tali problemi vengono correttamente riconosciuti e opportunamente contenuti. Capita così che le persone affette da un tumore e le loro famiglie decidano di “aiutarsi da sole” e di riunirsi in piccole comunità per parlare dei propri bisogni, delle difficoltà nei rapporti interpersonali, per stimolarsi nell’affrontare il loro disagio e per sostenersi a vicenda. Condividere ansie e preoccupazioni è terapeutico: serve a viverle come esperienze normali (le persone si sentono spesso isolate e “diverse” in un mondo che sembra organizzato esclusivamente per i sani) e quindi a gestirle consapevolmente.

La “Green Oncology”, letteralmente oncologia verde o ecologica, è un nuovo orientamento metodologico elaborato nel 2012 dal Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri (CIPOMO), secondo cui le scelte oncologiche, devono conformarsi: al principio della sostenibilità ambientale; alla lotta allo spreco in un’ottica di appropriatezza prescrittiva, diagnostica, terapeutica,  organizzativa ed economica; alla impellente necessità di una prevenzione primaria, secondaria e terziaria o meglio di promozione di stili di vita sani per implementare il potere di controllo di tutti i cittadini rispetto alla protezione della loro salute;  alla preferenza dell’uso di trattamenti farmacologici somministrabili per via orale piuttosto che per via parenterale. Questi sono solo alcuni degli 11 punti del programma innovativo della “Green Oncology”.

Il bisogno di un’apertura del modello medico classico verso una visione ecosistemica ben si concilia con i principi “dell’ecologia sociale” come naturale sviluppo di un processo, quello antropologico spirituale, che presuppone la consapevolezza della complessità dei “problemi esistenziali” e la necessità che essi vengano affrontati nelle comunità dove le persone vivono e lavorano. A partire dal secondo dopoguerra, un approccio ai disagi esistenziali, meglio conosciuto come “metodo Hudolin”, in riferimento al suo ideatore lo psichiatra croato Professor Vladimir Hudolin (1922-1996), si è affermato e sviluppato nel panorama internazionale riscontrando larghi consensi. Esso propone un’originale interpretazione di tali sofferenze e una loro semplice ma efficace soluzione che si basa sullo strumento operativo “Club”. Il Club in origine, sin dal 1964, anno della costituzione della prima comunità multifamiliare a Zagabria, era stato organizzato per affrontare i problemi alcol correlati sulla matrice delle comunità terapeutiche londinesi di Maxwell Jones (1907-1990). La comunità terapeutica di Jones era un nuovo metodo di terapia di gruppo che rappresentava uno strumento rivoluzionario per il trattamento dei disturbi mentali. Gli incontri del Club erano settimanali e tendevano al conseguimento di semplici obiettivi per il mantenimento dell’astensione dal consumo di alcol. Via via, con l’accrescersi delle esperienze, il Club ha in seguito interpretato, e interpreta tutt’oggi, un valido modello di comunità multifamiliare inserita nella comunità locale e impegnata nel processo di protezione e promozione della salute dove sono compresi anche i problemi correlati alle patologie oncologiche. Hudolin era solito affermare che “il Club può essere utilizzato per tutte le sofferenze e i disagi esistenziali e le loro varie combinazioni”. Si può quindi affermare che il Metodo Hudolin abbia piena legittimazione scientifica anche nell’approccio ai POC.

Occorre sottolineare che il Club non si occupa della terapia delle “patologie oncologiche”, questa è di pertinenza della medicina, dei medici e dei loro collaboratori, bensì del disagio esistenziale e dei fattori antropo culturali, che influiscono in maniera significativa su tale sofferenza. L’approccio ecologico sociale focalizza l’attenzione non sulla malattia e sul malato, bensì sulla persona e sul sistema famigliare, dove quest’ ultimo acquista un’importanza fondamentale sia come partner nelle scelte e nelle decisioni che devono essere sempre più condivise, sia nel processo di crescita e cambiamento continui che deve proseguire al di là della malattia. Con il termine sistema si intende il complesso degli elementi interconnessi da relazioni reciproche. Tali elementi, pur mantenendo ciascuno la propria individualità, nel loro insieme danno vita a un tutt’uno con nuove e diverse proprietà.

La famiglia è un sistema le cui parti sono i suoi diversi membri i quali, tramite le loro azioni, contribuiscono a determinarne lo sviluppo. Tale entità è dotata di caratteristiche e norme proprie. L’azione di ogni componente del sistema esercita un’influenza sugli altri e sull’intera famiglia. Gli equilibri della famiglia sono instabili in quanto essa è un sistema dinamico in continuo cambiamento. In virtù di queste caratteristiche, il disagio del singolo assume un significato “relazionale” oltre che “soggettivo”. La sofferenza del sistema famiglia, di fronte a un cambiamento inaspettato come la patologia oncologica di uno dei suoi membri, è spesso legata ad un’insufficiente capacità della stessa di riconoscere e scoprire le proprie risorse riorganizzative.

Situazioni che turbano gli equilibri famigliari possono determinare un irrigidimento dei meccanismi di funzionamento del sistema stesso, ovvero un’opposizione al cambiamento, oppure un adattamento verso nuovi equilibri. Sistemi rigidi e chiusi non sono in grado di evolvere e, in genere, determinano una sofferenza nei propri membri proprio perché si oppongono al naturale mutare delle cose.

Sin dagli anni ’60 del secolo scorso la “family stress and coping theory” studia la diversa capacità delle famiglie di fronteggiare gli eventi stressogeni, analizzando le strategie che la famiglia adotta, le risorse di coping e d’adattamento attivo e organizzativo di cui dispone. La famiglia va considerata un sistema sofferente di cancro, i suoi membri condividono la stessa esperienza emotiva di minaccia di separazioni e perdite di relazioni affettive. Va da se che la qualità di vita individuale e del sistema familiare deve essere uno degli aspetti su cui rivolgere la massima attenzione in ambito oncologico onde ridurre, quanto più è possibile, il rischio che si sviluppi la cosiddetta “fatigue – cancro correlata”, che attualmente, ha assunto un interesse considerevole per il suo peso sulle attività quotidiane degli individui.

La “fatigue” è definita come quel fenomeno multidimensionale che si sviluppa nel tempo; riduce i livelli di energia, le capacità mentali e lo stato psicologico delle persone che la descrivono come senso di stanchezza, depressione, letargia e perdita dell’energia vitale che può essere di breve durata o protrarsi anche per alcuni anni dopo il trattamento (ICD 10th Revision Clinical Modification,2000). Il richiamo alla “Resilienza” ovvero “alla capacità di autoripararsi dopo un danno e di riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante le situazioni difficili” rappresenta l’indicazione indispensabile per costruire l’atteggiamento mentale e culturale che possa esprimersi attraverso l’abilità di ciascuno a superare eventi stressanti o traumatici e a riorganizzare in maniera positiva la propria vita. Il concetto di resilienza ben definisce le potenzialità dei sistemi naturali di assorbire una sofferenza e di ridefinirne il significato e la funzione in termini di crescita e cambiamento continui. Il sistema ha quindi, grazie alla resilienza, la capacità di evolversi e garantire la vitalità delle funzioni e delle strutture del sistema stesso. Sulla base di queste premesse l’idea del “manuale dei Club Insieme” è nata e si è sviluppata per tentare di dare una risposta all’emergente “voglia di comunità” ovvero al desiderio di “… un luogo caldo, intimo, confortevole, sicuro, dove la comprensione e l’aiuto reciproco sono garantiti” (Z. Bauman,2001). Tale bisogno naturale, spontaneo e intrinseco nell’essere umano trova, nel lavoro del Club, una risposta semplice, efficace e gratuita che si propone di affrontare le sofferenze e le gioie della vita insieme e con trasporto solidale trascendendo dalla patologia oncologica.

Bibliografia

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Il lavoro di gruppo: cenni storici

“Io ero un corpo. Un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere di conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio”. T. Terzani (2004)

La pratica de “S’ajudu torrau” (letteralmente scambio d’aiuto o mutuo aiuto) è l’espressione sarda che indica le forme di aiuto reciproco, di condivisione e di scambio di saperi – informazioni intorno alle comunità. Attraverso queste pratiche veniva affermata la cittadinanza solidale, lo sviluppo di una comunità competente capace di individuare e affrontare i problemi mobilitando le proprie risorse verso la soluzione degli stessi e il miglioramento continuo della qualità della vita. Un esempio esaustivo di mutualità è rappresentato dall’antica pratica della “Paradura, o Ponidura”, istituto, ancora praticato, che concretizza la solidarietà tra i pastori della Sardegna. Quando un pastore perde il gregge (calamità naturali, furti, malattie) gli altri pastori donano allo sfortunato collega una o più pecore (a seconda delle disponibilità di ognuno) offrendogli così la possibilità di ricominciare la sua attività senza che questi assuma alcun debito nei confronti dei donatori se non l’impegno morale di ricambiare il gesto in caso di necessità.

Il nome “paradura” deriva dal verbo “parare” che in lingua sarda significa formare, creare (in questo caso un gregge) mentre la definizione “ponidura” deriva da “ponnere” che in lingua sarda significa mettere a disposizione. S’ajudu torrau può essere inteso come l’espressione spontanea di ecologia sociale, connaturata nell’uomo, della solidarietà popolare.

La pratica dell’auto mutuo aiuto (AMA), come afferma l’OMS, è l’insieme di tutte le misure adottate da figure non professioniste per promuovere, mantenere o recuperare la salute e costruire un capitale umano.

I gruppi di auto mutuo aiuto (A.M.A) hanno una lunga storia. Nati formalmente negli Stati Uniti d’America nei primi anni del secolo scorso, essi riproducevano un po’ i “filò”, ovvero quei gruppi umani tipici delle realtà contadine, analoghi ai gruppi di auto mutuo aiuto odierni. Il termine ”filò” deriva, presumibilmente, da “filare”, cioè dal lavoro che le donne in particolare andavano a svolgere d’inverno nelle stalle. Tale consuetudine, in seguito, si stabilizzò e gli incontri serali coinvolsero sempre più persone. Durante la stagione più fredda, sia in montagna sia in pianura le persone si riunivano per stare al caldo, per passare il tempo, per recitare il rosario, per sentire qualche novità del paese o dei dintorni.  “Far filò” voleva anche significare quel dialogare tra piccoli gruppi di persone, raccontare, custodire e trasmettere le tradizioni.

Più formalmente, intorno alla seconda metà del XIX secolo, nacquero in Italia le Società Operaie di Mutuo Soccorso (SOMS) ovvero associazioni, che originariamente videro la luce per sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa, nel caso di incidenti sul lavoro, malattia o perdita del posto di lavoro.

Le SOMS nacquero come esperienze di associazionismo, di mutuo sostegno e solidarietà nel mondo del lavoro. L’età d’oro” delle SOMS fu quella tra i due decenni del 1860 e 1880.

All’inizio del XX secolo con l’avvento del fascismo le SOMS vennero sciolte o incorporate in organizzazioni del partito.

Si deve a Pëtr Alekseevič Kropotkin (1842-1921), illustre filosofo russo, la prima rassegna storica sul mutuo aiuto. L’autore pubblicò il celebre testo “The Mutual Aid, a factor of evolution”. Le idee contenute in questo libro hanno trovato conferma pressoché in ogni ambito della vita sociale: dalla nascita delle succitate società di mutuo soccorso alla diffusione della cooperazione, dal sorgere delle organizzazioni di protezione civile alla crescita d’iniziative legate al volontariato medico e assistenziale, sino alle manifestazioni di solidarietà popolare che scaturiscono in modo spontaneo per superare collettivamente gravi disastri e calamità.  L’opera di Kropotkin e le sue originali intuizioni sulla cooperazione e il mutuo aiuto, intesi come fattori evolutivi essenziali, hanno resistito nel tempo e continuano a rappresentare un riferimento chiaro e pratico per l’organizzazione dei sistemi di auto-mutuo aiuto.

La nascita “ufficiale” dei gruppi di auto mutuo aiuto viene fatta risalire convenzionalmente al 1935, anno di fondazione degli Alcolisti Anonimi (Alcoholics Anonymous). Va ricordato che tale associazione, considerata il prototipo del movimento dell’Auto Mutuo Aiuto nel mondo, deve indirettamente la propria origine al celebre psicoanalista Carl Gustav Jung (1875-1961). Questa vicenda poco nota è stata chiarita dalla recente pubblicazione di uno scambio di lettere tra uno dei cofondatori dell’Alcoholics Anonymous e Jung. Attorno al 1931 Roland H. si rivolse a Jung per i suoi problemi di alcol, che lo sottopose a psicoterapia per circa un anno. Roland H. però ebbe subito dopo una ricaduta. Ritornò da Jung che con franchezza gli disse che un ulteriore trattamento medico o psichiatrico non avrebbe avuto con lui speranze di successo. Roland H. gli chiese se poteva sperare in qualche altro rimedio, e Jung gli rispose che lo poteva solo a patto che fosse capace di compiere personalmente un’esperienza spirituale o religiosa, dalla quale trarre motivazioni completamente nuove per la propria vita. Roland H. divenne membro dell’Oxford Group, un movimento luterano orientato alla rinascita spirituale mediante l’adesione ai valori della solidarietà, dell’onestà e della purezza.

Qui Roland H. ebbe l’esperienza religiosa della propria conversione, liberandosi dalla propria coazione al bere e dedicandosi all’aiuto di altri alcolisti. Uno di essi, Eddy, seguì il suo esempio, si unì all’Oxford Group e riuscì anch’egli a liberarsi della sua coazione al bere. Nel novembre 1934 Eddy fece visita all’amico Bill, il cui caso era considerato senza speranze, e gli riferì la propria esperienza. Bill in seguito ebbe un’esperienza religiosa e la visione di una società di alcolisti che trasmettevano l’uno all’altro la propria esperienza. Eddy e Bill fondarono poi la Society of Alcoholics Anonymous, la prima “società di eguali” nata con l’intento di trovare una valida alternativa ai “tradizionali” percorsi di cura e fondata sul riconoscimento delle potenzialità del singolo, oltre che sull’acquisizione di uno stile di vita sano.  I successivi sviluppi della Society of Alcoholics Anonymous sono a tutti noti (Ellenberger, 1976). Il programma AA rivolge una grande attenzione alla responsabilità individuale in una prospettiva di cambiamento personale, con una serie di tappe precise (12 passi) e con riconoscimenti che sanciscono la maturazione verso la meta di totale sobrietà finale (AA, 1953). Gli Alcolisti Anonimi si diffusero velocemente negli Stati Uniti e in Europa, applicando i loro principi non solo al problema alcol, ma estendendolo anche ad altre forme di disagio. Fra queste, i problemi azzardo correlati, con la nascita nel 1957 a Los Angeles di Gamblers Anonymous (Giocatori Anonimi), associazione che nel 2005 contava più di 1000 gruppi negli Stati Uniti e che si è diffusa in molti altri paesi del mondo.

Prima di Alcolisti Anonimi, nel periodo della rivoluzione industriale, meritano una citazione le Friendly Societies in Gran Bretagna e le Trade Unions negli Stati Uniti. Queste “società di eguali” promuovevano la cooperazione e il sostegno reciproco tra i gruppi di lavoratori per fronteggiare i loro bisogni socio-economici (Albanesi, 2004).

I gruppi di auto mutuo aiuto si svilupparono ulteriormente a partire dagli anni ’70, periodo in cui si affermarono numerosi movimenti sociali, come quelli femminili, per i diritti civili, il movimento consumatori, e a partire dal 1979 in Italia, e in quasi tutti i Paesi del mondo, quello delle comunità multifamiliari dei Club degli alcolisti in trattamento (CAT), poi Club Alcologici Territoriali (CAT) o più semplicemente “Club Hudolin” dal nome del loro ideatore Prof. Vladimir Hudolin (1922-1996), psichiatra croato di fama mondiale. I Club sono comunità di famiglie che operano a pieno titolo nella comunità locale sia per accogliere tante altre famiglie segnate dalla sofferenza alcol correlata sia per porsi come agenti di cambiamento della cultura sanitaria e generale rispetto al consumo di alcolici. I Club sono una risorsa fruibile ed accessibile per tutti i cittadini di un territorio, utili sia al superamento dei disagi alcol correlati sia alla promozione del benessere delle famiglie della comunità locale. Attualmente assistiamo ad una presenza capillare di Club e realtà di self-help organizzati con modalità diverse e rivolti alle molteplici tipologie del disagio, presenti nella nostra società. Nel campo oncologico, ad esempio, è emblematica l’esperienza del Sig. Orville Kelly da Burlington (Iowa-USA) che nel 1974 scrisse una lettera ad un giornale locale esponendo la sua condizione di malato di cancro. Dopo aver ricevuto numerose lettere da altri malati e loro familiari, decise di costituire un gruppo in cui le persone affette da tali patologie potessero aiutarsi vicendevolmente, soprattutto attraverso il sostegno reciproco. Nacque così il primo gruppo AMA “Make today count” letteralmente “fai in modo che oggi conti”. Attualmente “Make today count” è ampiamente diffuso negli USA con migliaia di associati tra malati, familiari, operatori professionali e comuni cittadini (P.R. Silverman,1989). Il “Candlelighters” (bambini affetti da patologie oncologiche) conta negli USA numerosi gruppi AMA distribuiti nel territorio. Nati nel 1970 hanno come obiettivo quello di far scoprire le risorse interne al sistema famiglia per affrontare i POC rompendo la tendenza all’isolamento che caratterizza la famiglia con difficoltà analoghe. Altre rilevanti iniziative di auto mutuo aiuto nello specifico dei POC come i Consurmount, la International Association of Laryngectomees, il Living with Cancer, Mastectomy Recovery Plus, il National Committee on the treatment of Intractable Pain, Reach to Recovery, Self-Help Action and Rap Experience rappresentano solo alcune tra le più note organizzazioni di sostegno statunitensi. Sulla base dell’esperienza americana sono nati in varie parti della nostra penisola numerosi gruppi AMA. Fra i più conosciuti vi sono quelli per le donne con un tumore al seno e quelli per l’elaborazione del lutto.  Ad oggi si contano oltre 10mila tra gruppi AMA e Club in tutta Italia che coinvolgono circa 200mila persone. Essi nascono spontaneamente, si riuniscono una volta la settimana, spesso in case private, si sviluppano prevalentemente col passaparola e rappresentano ormai una risposta autorganizzata efficace ai POC, alla elaborazione del lutto alla depressione, ai problemi alcol, azzardo, droga correlati, alla solitudine, all’obesità e altri disturbi del comportamento alimentare al burn out ecc. I problemi correlati alle patologie oncologiche (POC), economici, assistenziali, psicologici, di disagio esistenziale e relazionali, interessano tante famiglie delle nostre comunità, per le quali il nostro impegno di operatori della salute deve essere quello di offrire un aiuto concreto per un cambiamento delle condizioni di vita delle famiglie, che vivono una sofferenza di pressante minaccia di vita, partendo dai valori come solidarietà, condivisione, speranza, responsabilità, attivazione e reciprocità che rappresentano le peculiarità dell’essere umani. Soprattutto nelle situazioni più difficili e precarie, unirsi in piccole comunità per cooperare e aiutarsi ha rappresentato da sempre un mezzo semplice, naturale ed efficace per il superamento delle avversità della vita.

L’AMA, come da definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è l’insieme di tutte le misure adottate da figure non professioniste per promuovere, mantenere o recuperare la salute e costruire un capitale umano.

Il concetto di promozione della salute si riferisce ad una specifica strategia definita dalla Carta di Ottawa (1986) come quel o quei processi che mettono in grado le persone e le comunità di sviluppare un maggiore controllo sulla loro salute e di migliorarla. Tra le strategie proposte si sottolinea la necessità di permettere a tutte le persone di sviluppare al massimo le loro potenzialità di salute attraverso interventi di comunità centrati sullo sviluppo di abilità personali e collettive inerenti la salute. La promozione della salute rappresenta, dunque, un processo globale orientato alla trasformazione e al cambiamento delle condizioni sociali, ambientali, antropologiche culturali, economiche e strutturali e al potenziamento dei livelli di abilità delle persone rispetto a scelte di stili di vita salutari (empowerment for health).

La maggior parte dei problemi di salute che si sviluppano nelle famiglie, fra gli amici o al lavoro possono, più spesso di quanto non sembri, essere affrontati o risolti in gruppo discutendo e consigliandosi con le persone che sono in rapporto fra loro in gruppi naturali, Club o di Auto Mutuo Aiuto (Yablonsky, 1978). Bisogna ricordare, infatti, che i valori a cui si ispirano tali iniziative autonome sono in accordo con quelli dei movimenti di umanizzazione della psichiatria, fondati sul principio della de-medicalizzazione degli interventi e dei servizi (Totis e Zanichelli, 2007).

L’approccio A.M.A. così come quello ecologico sociale dei Club, fonda il suo successo sull’opportunità di condivisione esperienziale fra persone che vivono situazioni analoghe e il bisogno di aiutarsi l’un l’altro per affrontare i problemi comuni.

I gruppi A.M.A. e i Club sono una realtà in costante espansione nel nostro Paese. Si tratta di un modo di affrontare i problemi sociali che fa appello al senso di comunità, contribuendo a rafforzarlo. Proprio il concetto di “comunità” si rivela essenziale nell’auto mutuo aiuto e allo stesso tempo lo incorpora, considerando che la comunità ha assunto da sempre un ruolo fondamentale soprattutto nelle condizioni di disagio, per alleviare la sofferenza e per superare l’isolamento. La comunità è ambito privilegiato dove tutti i componenti hanno la possibilità di sviluppare il senso di appartenenza e di investire per promuovere benessere nella misura in cui hanno la possibilità di partecipare, influenzare, scegliere, trovare risposte e soluzioni. È in questo senso che i gruppi A.M.A. e le comunità multifamiliari dei Club Territoriali possono essere visti come occasione per accrescere la possibilità dei singoli di controllare la propria vita, di promuovere il sentimento di appartenenza e di connessione condivisa di valori, credenze e aspettative comuni (Colombo, 1996). I Club si configurano come “famiglia di famiglie”, come spazi di solidarietà inter-familiari, nei quali appartenenza e vicinanza rappresentano costanti imprescindibili per produrre benessere, e nei quali diviene centrale il rapporto orizzontale tra pari, di collaborazione tra famiglie in quanto “sorelle di una stessa condizione” (Costa Zezzo, 1996). Nel Club prende forma e si manifesta la solidarietà, quella solidarietà che vede, in primis, nella famiglia e nella comunità gli archetipi di strutture solidali.

L’organizzazione dei Club è piuttosto spontanea, l’unica regola è non andare oltre le 10-12 famiglie. La periodicità degli incontri è settimanale in sede e orario fissi. I membri del Club sono le famiglie e un facilitatore. Si tratta di riunioni tra “pari”, persone che vivono una stessa situazione e quindi, anche senza saperlo, sono già “esperte” in un determinato problema. Quello del facilitatore è un ruolo chiave e delicato: con la sua attività di moderazione egli può fare emergere le potenzialità del Club. Ecco perché è necessario e indispensabile la   formazione specifica per promotori/facilitatori.

Il facilitatore, volontario o professionista, è il primo servitore del Club, colui che può attivare e sostenere la loro nascita e il loro sviluppo nel territorio o all’interno delle organizzazioni. I corsi sono rivolti ai professionisti dei servizi sociali, sanitari ed educativi, ai cittadini e volontari, e offrono la possibilità di acquisire conoscenze, abilità e supporti operativi utili a promuovere o facilitare le reti di solidarietà. Il lavoro di rete è qualcosa di più ampio di una tecnica o di un modello di lavoro, è  soprattutto una mentalità, una nuova cultura di approccio ai problemi sociali, è  superare il modello causa-effetto, superare un approccio deterministico e lineare, vedere la complessità dei fenomeni, la multidimensionalità della sofferenza umana, è credere che in ogni uomo ci siano, seppur nascoste, innumerevoli potenzialità, è attivare la comunità perché in essa ci sono sì gli elementi dei problemi, ma anche quelli per le loro soluzioni.

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I Problemi Oncologici Correlati (POC)

“Il coraggio è il superamento della paura”. T. Terzani (2004)

Quando ad una persona viene comunicata la diagnosi di tumore, si vedono emergere tutte le paure e le ansie legate ad un nuovo e inaspettato evento doloroso. Viene messo in discussione il perché della vita, la sua insicurezza, le delusioni, le difficoltà di vivere il presente, le insoddisfazioni e le solitudini che si generano nel confronto con la complessità e le incertezze della nostra esistenza. Pur essendo “Disagio” una parola costruttiva, indica infatti uno stato nel quale non ci si trova a proprio agio, molte persone, per quanto assurdo possa sembrare, tendono a rifiutare qualunque aiuto, seppure nella sofferenza che questo atteggiamento comporta. Al momento della diagnosi inoltre il senso di panico e disperazione si estende a tutti gli ambiti della vita, al futuro visualizzato spesso come un peregrinare tra ospedali, cliniche, medici, medicine e ripetuti esami clinici. Altre volte si rileva un atteggiamento di negazione della malattia, come tentativo di rispondere al rifiuto del dolore e delle sue conseguenze. Questa tendenza può essere controproducente e dannosa in quanto la negazione della realtà non può modificare quanto è già avvenuto, non pronunciare la parola tumore non lo fa scomparire, al contrario può esporre al rischio di sottovalutare la gravità e o peggio di ignorare le terapie mediche praticabili. Un altro atteggiamento fortemente negativo è l’isolamento sociale che spesso riguarda tutto il sistema familiare, chiuso nel carico di emozioni e paure e costretto a sostenere in solitudine il peso della sofferenza. Parlare di un problema, qualunque esso sia, permette di dare libera espressione alle emozioni, a gestirle e a contribuire ad una migliore accettazione e sopportazione anche fisica della malattia e del suo trattamento. I problemi correlati alle patologie oncologiche (POC) si configurano quindi come sofferenze multidimensionali che investono tutte le aree di vita dell’individuo e della sua famiglia:

  • La dimensione psicologica – ossessione della malattia, senso di impotenza, nervosismo, irritabilità, ansia, alterazioni del tono dell’umore, aumento dell’impulsività, distorsione della realtà;
  • La dimensione somatica – alterazione dell’alimentazione, cefalee, conseguenze fisiche legate alla malattia e ai trattamenti chemioterapici antineoplastici, consumo di alcol, tabacco, etc.;
  • La dimensione relazionale e sociale – danni economici, danni morali, sociali, familiari, professionali, isolamento sociale e stigmatizzazione;
  • La dimensione spirituale – il disagio spirituale è accompagnato da un senso di impotenza davanti ai problemi e di impossibilità di capirli.

Esso si riferisce alla perdita di ogni interesse.  Accanto alla malattia oncologica si può insinuare un malessere interiore che si manifesta quando il coinvolgimento nelle attività vitali perde di significato, un malessere che indebolisce la forza d’animo, la capacità di progettare, di sognare e di sperare. L’uomo è un essere con una struttura biofisica della quale fa parte la spiritualità. Il Prof. Hudolin ha definito la spiritualità antropologica “un sentire comune che va al di là dei credi religiosi ed è insito nella natura umana: ci spinge a prenderci cura dell’altro in quanto esseri umani, a riconoscere ed accettare le diversità, alla solidarietà. Quella parte dell’uomo che non si può definire in termini materiali e che ci rende diversi dagli altri esseri viventi. Mi riferisco all’emozionalità, all’etica, all’amore, all’amicizia, ad una serie di regole del comportamento innate ed ereditate, alla religiosità, alla fede, alla politica e a molti aspetti profondamente umani…”. Hudolin definisce Il disagio spirituale situandolo tra i problemi legati alla non accettazione di se stessi, del proprio comportamento e del proprio ruolo nella comunità, della cultura sociale esistente e della prevalente giustizia sociale. Tali sofferenze possono essere alleviate con diversi approcci: psicoterapici individuali, di coppia, di gruppo, informali. Tra questi ultimi quello ecologico sociale o Metodo Hudolin, che si fonda sul lavoro delle comunità multifamiliari dei Club, offre la possibilità di un miglioramento della qualità della vita individuale e familiare. I Club propongono un nuovo percorso di solidarietà, crescita e cambiamento «insieme», in un clima di fiducia e condivisione. Il Club è una piccola comunità d’azione dove tutti sono responsabili di tutti in un’ottica di interdipendenza, esso è parte della comunità in cui opera, è facilmente accessibile, gratuito e costituito da famiglie differenti per sesso, età, educazione e professione.

Bibliografia

Hudolin V. et Al. (1992), Verso un concetto ecologico di salute. Erickson ed., Trento.
Hudolin V. (1991), Manuale di alcologia. Erickson ed., Trento.
Hudolin V. (1995), Sofferenza multidimensionale della famiglia. Busti ed., Verona.
Maio M. (2017), Il corpo anti cancro. Piemme ed., Milano.
Terzani T. (2004), Un altro giro di giostra. Longanesi ed., Milano.
Carcangiu G. (2011), Progetto Domino, Manuale di Self Help. Cagliari.
Carcangiu G. (2017), Il manuale dei Club Domino, l’azzardo e i problemi azzardo correlati, Grafica del Parteolla ed., Cagliari.
Carcangiu G. (2014), Vladimir Hudolin, Storia di una rivoluzione scientifica. Teoremauno ed., Cagliari.
Carcangiu G. (2011), Manuale di EcoAlcologia, Teoremauno ed., Cagliari.

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