di Giampaolo Carcangiu
“In tutti gli uomini è la mente che dirige il corpo verso la salute o verso la malattia, come verso tutto il resto.” Antifonte di Ramnunte (480-411 a.C.)
“La scienza è un bene per tutti, un arricchimento culturale. Una risorsa capace di migliorare le nostre capacità di ragionare, di provare emozioni e non sottometterci a superstizioni antiche e moderne. In questo senso la scienza può avere ricadute sul benessere di tutti.” G.Rizzolatti (2016)
Nella comprensione delle condizioni legate al disagio esistenziale, qualunque ne sia la causa, il contributo delle neuroscienze è ed è stato determinante per la cognizione dei meccanismi neurobiologici alla base di tale sofferenza. Il cervello umano è costituito da circa cento miliardi di neuroni, ognuno dei quali possiede circa diecimila sinapsi; esso è in grado di modificarsi, è dotato di neuroplasticità che gli permette di rimodellare le connessioni neuronali o costituirne di nuove (“sprouting”), attivando così aree in grado di assumere funzioni suppletive o vicarie. Una potenzialità incalcolabile. Così come ipotizzato dalle “Neuroscienze Sistemiche”, che studiano le funzioni delle reti neurali ,“le disfunzioni sono da ritenersi parti o espressioni di un disturbo sistemico più che la perdita o un disturbo di funzioni singole. Anche in traumi localizzati, come ad esempio le lesioni corticali, l’effetto è una menomazione dell’intero sistema d’azione, inversamente il sistema ha considerevoli capacità regolative che una macchina non ha” (Von Bertalanffy, 1968). Alla luce di queste affermazioni le definizioni di molti disagi esistenziali rubricati come “patologie croniche recidivanti” e le conseguenti asserzioni “una volta malati, malati per sempre”, perdono di significato, in quanto non convalidate scientificamente. Le potenzialità del cervello umano sarebbero tali da rimediare, anche con opportune tecniche e supporti tecnologici, a molte sue disfunzioni, comprese quelle relative ai cosiddetti disturbi del comportamento.
Le tecniche di “neuroimaging” analizzano e studiano la relazione tra l’attività di determinate aree cerebrali e le specifiche funzioni cerebrali, attraverso metodi di visualizzazione come la tomografia ad emissione di positroni (PET) , la risonanza magnetica funzionale (fMR), la magnetoencefalografia, la tomografia ad emissione di fotone singolo (SPECT) e altri ancora. Il rapido sviluppo di tali tecniche ha permesso di fare importanti scoperte, chiarendo la relazione che intercorre fra le diverse aree del cervello, le loro funzioni, la diagnostica e l’efficacia delle terapie farmacologiche e psicoterapiche.
Quando si parla di validazione di un intervento, come ad esempio quello psicoterapeutico, si deve necessariamente pensare a risultati dimostrabili in parallelo, sia nell’area psico-comportamentale che in quella delle funzioni e delle strutture del sistema nervoso. Le esperienze con gli studi di immagine funzionale sulla psicoterapia svolti sino ad oggi mostrano risultati piuttosto consistenti per alcuni disturbi, mentre per altri le evidenze non sono sempre concordanti e cambiano a seconda delle modalità del trattamento. La psicoterapia, quindi, non è solo un efficace trattamento psicologico, capace di indurre rilevanti cambiamenti nella sfera psico-relazionale delle persone sofferenti, ma apporta significative modifiche cerebrali alterando l’espressione dei geni che producono cambiamenti nell’attività funzionale di alcune aree del cervello (E.R. Kandel, 2001). Questi cambiamenti cerebrali sono correlati al miglioramento dello stato psicofisico delle persone, per cui quando si osserva una significativa riduzione dei sintomi clinici è rilevabile un corrispettivo cambiamento dell’attività funzionale del cervello. (T. Wykes et al. 2002).
Negli approcci psicoterapici i migliori risultati si ottengono quando si raggiunge una stretta alleanza tra pazienti e terapeuti. Si può ipotizzare che, considerati i risultati positivi rilevabili con le pratiche dell’auto mutuo aiuto, del lavoro nelle comunità multifamiliari dei Club e o di altri approcci di comunità in termini di cambiamento e miglioramento della qualità di vita, così come già verificato per la psicoterapia individuale, di coppia o di gruppo, tali pratiche “alternative” determinino cambiamenti nell’attività funzionale di alcune aree del cervello e quindi nella sfera psico fisica relazionale delle persone.
Relativamente agli interventi cosiddetti “alternativi” possiamo supporre che la loro efficacia sia legata alla capacità delle persone di risuonare empaticamente fra loro, alla costruzione nel gruppo di un clima empatico favorevole che comporta la riarmonizzazione e la reciprocità dei componenti.
L’uomo ha bisogno di comunità, (Z. Bauman, 2001) di avere cioè un qualcosa di solido e definitivo su cui appoggiarsi, che generi tranquillità e sicurezza. La parola comunità emana una sensazione piacevole. E’ un luogo caldo, intimo, confortevole, sicuro, dove la comprensione e l’aiuto reciproco sono garantiti. Tali sensazioni, così naturali e spontanee, possiamo affermare che siano, per natura, intrinseche nell’essere umano. La nostra neurobiologia ci vincola agli altri. Abbiamo una base biologica, che ci predispone a una profonda connessione reciproca con I nostri simili. La capacità di capire gli altri è dovuta all’attività di particolari cellule cerebrali chiamate neuroni specchio. Queste cellule ci consentono di capire le intenzioni degli altri e di imitare i nostri simili. “Queste sono le cellule che creano i piccoli miracoli della nostra quotidianità, che sono alla base del modo in cui governiamo le nostre vite, che ci legano gli uni agli altri, sul piano mentale e su quello emotivo…. quando vediamo qualcun altro che soffre o sente dolore, i neuroni specchio ci aiutano a leggere la sua espressione facciale e a farci provare la sofferenza o il dolore di quell’altra persona. Simili momenti, sono la base fondante dell’empatia, e probabilmente anche del senso morale, un senso morale profondamente radicato nella nostra biologia…” (M. Iacoboni, 2008)
La scoperta dei neuroni specchio prova che siamo fisiologicamente predisposti a comprenderci e a identificarci reciprocamente, intuitivamente e immediatamente, soprattutto in relazione allo stato di sofferenza dell’altro.
“Empatia non significa buonismo. Essa indica una nostra predisposizione ad agire in maniera partecipe verso l’altro, ovvero la capacità di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d’animo di un’altra persona ……. veniamo al mondo con delle predisposizioni fondamentalmente positive verso gli altri, ma poi deve essere la società a modularle”. (G. Rizzolatti, 2016.) «Ci siamo evoluti per stabilire relazioni profonde con altri esseri umani: la nostra consapevolezza di questo fatto può, e dovrebbe, avvicinarci sempre di più gli uni agli altri» . M. Iacoboni
La scoperta del prof. Giacomo Rizzolatti e della sua equipe dell’Università di Parma, ha dato ulteriori possibilità di comprendere meglio cosa sia l’empatia (ovvero la capacità di un individuo di percepire in modo immediato i pensieri e gli stati d’animo di un’altra persona) e come gli stessi neuroni siano implicati nei processi affettivi, di apprendimento, comprensione, crescita e maturazione dell’essere umano. L’empatia è lo strumento attraverso il quale interagiscono tutti i raggruppamenti umani (quindi anche i gruppi di auto mutuo aiuto, i Club etc.). La scoperta dei neuroni specchio ha stimolato i ricercatori a indirizzare sempre di più l’attenzione sull’importanza del clima empatico favorevole nel contribuire alla risoluzione dei propri conflitti interni e di quelli relazionali (problem solving).
L’approccio ecologico sociale (metodo Hudolin) fa leva sul potere “terapeutico” che l’empatia possiede e che, con naturalità, si esprime e si sviluppa nei Club. Essi sembrano rappresentare e poter offrire una possibilità di risoluzione dei PAC per un gran numero di persone sofferenti. Dal 1964 ad oggi i Club , la loro diffusione numerica e il loro accumulo di esperienza, hanno confermato la validità e la riproducibilità di tale modello che rappresenta, con il suo statuto teorico di partenza, una tappa fondamentale nell’evoluzione della scienza moderna.
È indispensabile, sia da un punto di vista morale, che politico e scientifico, trovare le modalità per coinvolgere sempre più i grandi segmenti della popolazione nella realizzazione su larga scala dell’approccio ecologico sociale in generale e dei Club in particolare. L’esperienza ha da tempo dimostrato che solo la cooperazione organizzata e l’interconnessione fra i nodi della rete comunitaria, nel rispetto reciproco dei differenti ruoli, istituzionali e non, possono avere successo nel modificare i sistemi di risposta agli emergenti bisogni di salute della popolazione generale.
Occorre inoltre introdurre nel campo dei PAC il concetto profondamente sistemico di “ecologia” che ben si esprime nel significato di interdipendenza “siamo tutti responsabili di tutti” e che si riconosce come sistema determinante di relazioni umane. Sarebbe opportuno completare l’inquadramento dei PAC nell’ambito dei disturbi degli equilibri ecologici e il Club nell’ambito del modello della “comunità che cura” ovvero di quella fitta rete di nodi formali e informali per il sostegno e la promozione di iniziative tese alla protezione della salute per tutti. Il passaggio successivo si orienterebbe così verso la costituzione di una comunità competente, ovvero quella comunità in grado di riconoscere e, utilizzando i nodi della rete, affrontare e superare i problemi che la riguardano.
Così come Nelson Mandela (1918-2013) affermava, “L’educazione è l’arma più potente che si può usare per cambiare il mondo” è necessario insistere sempre sull’importanza dell’organizzazione di un sistema di educazione alla salute territorializzato perché “…quando si ottiene un cambiamento nella cultura sanitaria e generale della comunità significa che si è raggiunta una migliore qualità della vita …”. (Hudolin, 1991)
Il concetto ecologico sociale si basa sul lavoro dei Club, comunità multifamiliari autonome costituite da 2 a non più di 12 famiglie. l PAC vengono inquadrati come disturbi sistemici con implicazioni psico-fisico-sociali. Il Metodo Hudolin prende spunto dall’approccio sistemico, introdotto negli anni ‘50, che deriva dalla teoria generale dei sistemi elaborata da L. Von Bertalanffy (1968). La teoria sistemica prende in considerazione diversi livelli all’interno di un sistema e la sua organizzazione in rapporto con l’esterno. L’approccio sistemico studia le interazioni del sistema famiglia e dei sovrasistemi in interazione con la famiglia (comunità multifamiliare). Il Metodo Hudolin propone un cambiamento del comportamento della famiglia con PAC e della cultura della comunità tale da consentire a tutti una crescita e maturazione come libera scelta senza condizionamenti stigmatizzanti e/o emarginanti.
Nel lavoro pratico non si può parlare di un PAC isolato, e di fatto ci si trova sempre di fronte a sofferenze multidimensionali. Da un punto di vista operativo, l’approccio ecologico sociale secondo il metodo Hudolin, propone l’assunzione di un nuovo ruolo e funzione degli operatori della salute nella comunità, quello di “mobilitatori” di risorse relazionali a vari livelli: nella famiglia con PAC, tra famiglie con PAC (rete di reti), nella comunità (famiglie, risorse pubbliche e del privato sociale). L’approccio multifamiliare pone al centro del programma ecologico sociale non l’individuo, ma il contesto (con un’attenzione particolare per la famiglia). Ne consegue che tutto il sistema sofferente per POC deve entrare nel programma con l’obiettivo di riportare un minimo di tranquillità nella famiglia e far scattare il meccanismo di autoprotezione. Per approccio familiare si intende quindi il coinvolgimento di tutto il sistema familiare, che si trova in una situazione di disagio. In quest’ottica, tutti i membri della famiglia devono modificare il loro stile di comunicazione e crescere e maturare insieme. Il lavoro multifamiliare del Club, si basa sul noto principio del “qui e ora”, e richiede la sensibilizzazione, la formazione e l’educazione continua delle famiglie e della comunità. L’approccio ecologico sociale rappresenta un’esemplificazione teorica ed operativa di un’azione partecipata e comunitaria di promozione e tutela della salute globale.
Bibliografia
Bauman Z. (2001), Voglia di Comunità, Laterza ed. Roma-Bari.
Bierer J. (1948), Therapeutic Clubs. Lewis & co, London.
Bion W. (1979), Esperienze nei gruppi, Armando ed., Roma
Brody AL, Saxena S, Stoessel P et al. (2001) – Regional brain meta-bolic changes in patients with major depression treated witheither paroxetine or interpersonal therapy: preliminary find-ings. Arch Gen Psychiatry; 58 (7): 631-640
Gallese V, Migone P, Eagle MN. (2006) La simulazione incarnata:i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi. Psicoterapia e Scienze Umane XL; (3): 543-580.
Hudolin V., (1995), Sofferenza multidimensionale della famiglia. Eurocare ed. Padova.
Hudolin V., (1984), Therapeutic community treatment of alcohol dependent subject. Int. Pshychol., br.25.
Hudolin V., (1985), Famiglia, territorio e salute mentale. ACAT S.D. del Friuli ed. Udine.
Iacoboni M., (2008), I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri. Bollati Boringhieri ed. Torino
Kandel ER (2001) The molecular biology of memory storage: a dialogue between genes and synapses. Science
Rizzolatti G., (2016), In te mi specchio – per una scienza dell’empatia, Rizzoli ed. Milano.
Von Bertalanffy L. (1968),General system theory, NY Press.
Wykes T., Brammer M., Mellers J., Bray P., Reeder C., Williams C., Corner J. (2002). Effects on the brain of a psychological treatment: cognitive remediation therapy. Functional magnetic resonance imaging in schizophrenia. The British Journal of Psychiatry Aug 181 (2).
Soresi E. (2016), Il cervello anarchico. Utet libri ed., Novara.